Rinchiusi dal 1555 entro i confini di un ghetto, ricavato nel cuore del centro urbano, gli ebrei romani avevano vissuto fino al 1870 condividendo spazi ristretti frazionati in minuscole particelle, saturando ogni area disponibile per ricavarne residenze, magazzini, attività commerciali, botteghe artigianali, luoghi di culto come attestato dalla documentazione utilizzata. Una piccola “città” rinchiusa in sé stessa, che potremmo definire una “città degli esclusi”, separata dal corpus del nucleo cittadino da mura e portoni. Si era così stratificato un tessuto urbano caratterizzato da piazze, piazzette, vie e vicoli incastonati in alti caseggiati, testimoniato dalle rappresentazioni cartografiche che ne avevano disegnato le caratteristiche dalla pianta di Stefano du Pérac edita da Antonio Lafréry nel 1577 alle due piante di Giovan Battista Nolli del 1748 e 1777, a quelle elaborate durante la Restaurazione nel 1816 e nella fase postunitaria nel 1878 sino a giungere a quella del 2000 che sovrappone il nuovo tracciato urbano a quello del vecchio ghetto confinante con il Ponte Quattro Capi, che consente di giungere all’Isola Tiberina, e il Teatro di Marcello.
La demolizione del ghetto ebraico di Roma, decisa nel 1885 in attuazione del primo Piano Regolatore della città approvato nel 1883, sintetizzava il lungo processo di riappropriazione e di ricollegamento della “città degli ebrei”, al complesso del centro urbano. Una trasformazione ispirata da esigenze di igiene e decoro passata attraverso la quasi totale demolizione del ghetto ed esito anche delle riflessioni sulla configurazione degli spazi urbani a Roma da un quindicennio capitale del Regno che ambiva a diventare un centro urbano moderno ed efficiente ed esigeva una geografia urbana che fosse all’altezza del suo ruolo non potendo, quindi, più accettare il mantenimento di un’area che versava in pessime condizioni come quella del ghetto. Per dare attuazione ai lavori di sventramento decisi da Leopoldo Torlonia, assessore allora facente funzioni di sindaco, fu necessario ricorrere con una manovra di emergenza alla legge 2893 del 1885 sul risanamento della città di Napoli che venne estesa con un regio decreto alla città di Roma. L’abbattimento dell’antico claustrum hebreorum, così denominato il ghetto nelle fonti pontificie, non incontrò obiezioni né da parte della comunità ebraica né tra le forze politiche cittadine data la sua ubicazione nella zona più depressa e umida della città, confinante con il greto del Tevere, la c.d. Ripa dei Giudei, e soggetta a inondazioni periodiche. Qui gli ebrei si ammassavano in uno spazio ristretto e in case anguste, di cattiva costruzione, antigieniche, strette in un dedalo di vie e vicoli come rappresentato dalle immagini utilizzate che ritraevano le strade e piazze dell’antico quartiere ebraico nella loro originaria conformazione e ora scomparse: via e piazzetta Rua, via delle Azzimelle contrassegnata al suo inizio da un caratteristico arco e così denominata per la presenza di un forno che produceva pane azzimo, via della Fiumara, piazzetta del Pancotto, piazza Giudia dove erano presenti, sparse qua e là, le botteghe dei commerci e delle attività tradizionali degli ebrei capitolini. Le demolizioni, immortalate in molti casi dalle fotografie realizzate nel 1890 dal noto acquarellista romano, Ettore Roesler Franz, famoso per i suoi quadri dedicati alla Roma sparita, ci restituiscono le immagini delle trasformazioni che stava allora subendo nella sua struttura urbanista il vecchio ghetto ancora abitato da parte della sua popolazione, quella meno abbiente, a differenza delle famiglie più facoltose che si erano trasferite, invece, nei nascenti quartieri borghesi sorti attorno a via Nazionale, al Viminale, a piazza Vittorio, a Monti, all’Esquilino.
Nel 1904, più di dieci anni dopo l’incendio che aveva distrutto l’edificio delle Cinque Scòle (le cinque sinagoghe della comunità ebraica romana: Scola Catalana, Scola Castigliana, Scola Siciliana, Scola Nova, Scola Tempio, ognuna officiata con un diverso rito, secondo la specifica tradizione dei suoi iscritti) veniva l’inaugurato il Tempio maggiore alla presenza del sovrano Vittorio Emanuele III. La nuova sinagoga costituisce il simbolo più imponente del riscatto e dell’acquisita libertà della comunità ebraica romana. Nell’età giolittiana raggiunta l’uguaglianza e innalzata una sinagoga, segno della loro inclusione a pieno titolo nella società nazionale, che ridisegnava lo skyline della capitale essendo visibile dai maggiori punti di belvedere della città, gli ebrei potevano sentirsi a pieno titolo cittadini di Roma di cui si consideravano anche, e non a torto, i suoi più antichi abitanti.
Questo percorso è stato realizzato sulla base dei materiali documentari e fotografici conservati presso l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma nella sezione Fondo Salvatore Fornari.
Ester Capuzzo