All’alba del Novecento la popolazione di Roma era raddoppiata rispetto al 1870. La crescita demografica della città era riconducibile soprattutto a consistenti flussi migratori. Nei primi anni di Roma capitale d’Italia era giunto dal nord il numeroso personale impiegatizio di ministeri ed uffici, mentre a partire dagli anni Ottanta aveva preso forma una massiccia immigrazione dalle campagne del centro, che forniva manodopera alla febbrile industria edilizia cittadina. All’incremento della popolazione non corrispose, però, un’adeguata disponibilità di soluzioni abitative. In assenza di un intervento pubblico, le poche e scadenti case economiche e popolari esistenti erano state costruite da privati e cooperative. A causa dell’alta richiesta di alloggi, i nuclei di baracche si moltiplicarono ai margini della città.
Per fronteggiare l’emergenza, l’amministrazione comunale ritenne opportuno avviare programmi di edilizia residenziale pubblica e nel 1903 approvò la nascita dell’ICP (Istituto Case Popolari; oggi ATER, Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale). Nella prima metà del secolo, l’Istituto fu grande protagonista dell’edilizia capitolina e contribuì a orientare l’espansione della città. A distanza di cinquant’anni dalla sua fondazione, quasi il 10% della popolazione di Roma abitava in alloggi dell’ICP.
Proprio per la sua centralità nell’edilizia cittadina, ripercorrere le vicende dell’Istituto nei primi decenni di attività permette di osservare i risvolti concreti di fenomeni politici ed urbanistici più ampi. L’opera dell’ICP riflette, infatti, il susseguirsi delle stagioni politiche, dal riformismo giolittiano al regime fascista. In questa sede, i primi cinquant’anni di attività sono illustrati tramite fotografie, planimetrie e documenti provenienti dall’Archivio dell’ATER del Comune di Roma, dall’Archivio fotografico del Museo di Roma e dall’Archivio storico dell’Istituto Luce.
I primi interventi rilevanti si collocano negli anni Dieci, quando furono realizzati San Saba e Testaccio. L’Istituto proponeva allora un modello innovativo di edilizia popolare. La qualità delle case, la salubrità dell’ambiente circostante, urbanizzato e dotato di servizi collettivi (bagni, asili, ambulatori), dovevano garantire agli abitanti connessioni sociali e un tenore di vita dignitoso.
La ripresa dei flussi migratori dopo la Grande guerra stimolò l’espansione dell’edilizia economica e popolare su tutto il territorio cittadino (Trionfale, Piazza d’Armi, Appio-Latino, Ostia). Roma si apprestava ormai a raggiungere il milione di abitanti.
Negli anni Venti è di primaria importanza la costruzione del quartiere popolare Garbatella e di Città-Giardino Aniene. Questi interventi, entrambi ispirati al modello delle garden cities inglesi, esprimono quella ricercatezza stilistica che fu marchio di fabbrica dei primi anni dell’ICP. Il barocchetto romano ed i richiami medievaleggianti ancora oggi rendono riconoscibili queste costruzioni.
Nel frattempo, cominciava a manifestarsi l’ingerenza politica del governo mussoliniano. La presidenza fu affidata ad Alberto Calza Bini e, successivamente, l’Istituto fu denominato ufficialmente “fascista” (IFACP, Istituto Fascista Autonomo Case Popolari). Oltre a questa influenza esplicita e formale, durante il ventennio l’attività edilizia fu fortemente orientata dalle scelte urbanistiche e dalle politiche abitative del regime, in particolare dalle demolizioni, dai rifacimenti, dagli sbaraccamenti, dalla progressiva liberalizzazione degli affitti e dalla conseguente pressante crisi degli alloggi. In questo senso, la realizzazione sul finire degli anni Venti dei quattro Alberghi suburbani alla Garbatella, edifici adibiti a ospitare in via provvisoria gli sfrattati, restituisce un quadro dell’emergenza abitativa e del ruolo ricoperto dall’IFACP.
Gli anni Trenta sono caratterizzati dalla costruzione delle borgate “ufficiali”. Il Governatorato, il nuovo ordinamento amministrativo eretto dal fascismo in sostituzione degli organi comunali, ne realizzò alcune, provvisorie e di rapida esecuzione. Nella seconda metà del decennio l’IFACP, oltre a rilevare le prime, ne costruì altre, più solide e destinate a durare nel tempo.
Si trattava di insediamenti sparsi nel territorio suburbano e dell’Agro, che costituivano, da un lato, il tentativo di tamponare l’emergenza e, dall’altro, un modo di allontanare dal cuore dell’Urbe mussoliniana categorie sociali e politiche invise al regime. Gli interventi realizzati a Tiburtino III, Primavalle, Quarticciolo e nelle altre borgate si differenziavano molto dalle precedenti costruzioni dell’Istituto.
Cambiavano gli schemi planimetrici, le tipologie e i linguaggi, ora caratterizzati da criteri tecnici e compositivi d’ispirazione razionalista, seppur mediati dalla tradizione, e da una semplificazione che, nel riprendere gli indirizzi moderni, rivelava anche l’intento di ridurre tempi e costi di realizzazione. La popolazione delle borgate “ufficiali” si trovò ad abitare lontano dalla città consolidata, in insediamenti privi o poco dotati di servizi, sebbene gli interventi dell’Istituto, progettati da architetti attenti ai principi compositivi e al controllo della scena urbana, fossero qualitativamente migliori di quelli governatoriali.
Nel secondo dopoguerra le borgate, oggetto di demolizioni e riqualificazioni, saranno raggiunte dall’espansione della città pubblica e privata, venendo inglobate nella periferia cittadina. Lo IACP (dalla denominazione dell’Istituto era stato rimosso l’aggettivo “fascista”) sarà ancora protagonista dell’espansione della città con la costruzione di nuovi quartieri fino agli anni Ottanta, per poi dedicarsi prevalentemente alla gestione, al mantenimento ed al recupero del proprio patrimonio edilizio.
Alessandro Lattanzi